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Bonus Track – L’arte di perdere
In occasione della pubblicazione di Cocincina abbiamo il piacere di ospitarne l’autore, Luca De Pasquale, per una sorta di intervista che si presenta come un dialogo. Per Filigrana, nella parte dell’intervistatore/dialogante, scrive Tanai Baculo – in doppia veste di editore ed amico di una vita.
Buona lettura.
T – Caro Luca, innanzitutto grazie di aver accettato di collaborare a questa strana intervista ad effetto Amarcord.
Desidero celebrare la nostra amicizia, e questo libro, parlando di musica, di letteratura e di cinema. Mi sembrano gli elementi che ci hanno accomunato e che sono ancora ben vivi in noi.
L – Quando ci conoscemmo, da studente ripetente e solipsisticamente ribelle come ero, mi venne istintivo, capito con chi avevo a che fare, trarre un sospiro di sollievo. Ero nel pieno di una serie di movimenti ostinati e contrari a qualsiasi cosa, in prima battuta contro me stesso: una specie di gioco al massacro nel voler essere frainteso, equivocato e avversato a qualsiasi costo. In quel contesto così agitato, da quasi maggiorenne ancora in prima liceo, ben pochi mi prendevano, non senza difficoltà, per quel che ero: uno svogliato studente capitato tra i banchi del Liceo Umberto per questioni di nascita e di vicinanza logistica, non altro, non quanto bastava. Uno innamorato dei dischi, che cacciavo con pervicacia e ostinazione, e in misura minore dei libri, che sognavo più di scrivere che di leggere. In quell’era degli equivoci, in cui mi si dava del jazzofilo quando ascoltavo hard rock e si pensava a me come un individualista di destra in erba quando puntavo tutto sull’anarchia, uno come te, movimentato, agitato, perennemente alla ricerca di progetti e novità, innamorato dell’idea stessa di cultura da aggredire, rappresentava, torno a dire, un sospiro di sollievo. Quasi come la cassetta di Benny Mardones che continuavo ad ascoltare dalla mattina alla sera, pronunciando il nome del cantante “Benny Merdons”. E di musica ne ho condivisa con Tanai, a partire da un’assurda cassetta di un gruppo poi scomparso nel nulla, i Green Jelly.
Ma questa è un’altra storia. O no?
T – Una di infinite altre storie, di quelle che ti fanno capire quanto (auspicabilmente) si cambia nella vita… o no.
Torniamo alla musica.
In principio fu il basso. Elettrico. Capire il basso vuol dire capire la musica: la sua funzione, la sua importanza, le sue specifiche frequenze, i suoi stili. Non ne ero consapevole, ma il basso si era già infiltrato nella mia mente ed aveva già iniziato il meticoloso processo di legame tra frequenze musicali e sensazioni in rapporto 1:1.
Si dice che sia l’olfatto il più potente dei sensi in quanto a legame con le sensazioni/emozioni, ma io darei certamente una menzione d’onore al basso fretless.
Tra le tante canzoni da cui ho succhiato energia emotiva negli anni, ti propongo la mia «Top 3» dell’epoca anniottanta:
Prefab Sprout – Appetite
Cars – Drive
Mr. Mister – Broken Wings
L – Splendide. Delle tre, quella cui sono più legato è “Broken Wings”, perché Richard Page è stato ed è uno dei miei eroi personali, voce splendida e basso nei “seminali” Mr. Mister, uno di quei gruppi che fa storcere sempre il naso agli intellettuali (presunti) e ai metropolitanisti d’avanguardia in sospensorio. Il legame tra musica e scrittura è per me inscindibile e naturalmente irrinunciabile; dall’una sgorga l’altra, in un continuo richiamo che ha per me un significato fondamentale, che mi accompagnerà fino alla morte: la ricerca.
Mai fermarsi, mai delinearsi troppo, mai farlo a gusto degli altri, mai per convenienze e facilitazioni. Ecco cosa penso sinceramente.
T – Come il legame con la musica, anche l’atto di scrivere profusamente è stato costante nella tua vita.
A parte lo scrittore professionista, io ho sempre interpretato il concetto stesso di scrittore come «quello che sa scrivere bene»: autore giovane, spesso autodefinito artista, spesso benestante, spesso indossante maschera di individuo tormentato, al sicuro nella sua stanza nella casa di Posillipo. Tu non possedevi nessuna di queste caratteristiche, a parte il fatto che ammiravo molto il tuo stile (cosa che ho sempre palesato urbi et orbi), e la cosa che mi sorprese fu il modo in cui tu attraverso la parola scritta rappresentavi l’incarnazione del detto «ne uccide più la penna che la spada».
Nel caotico calderone dei primi anni novanta sono stato testimone di azioni coraggiose, intellettualmente anarchiche e socialmente rivoluzionarie di cui probabilmente nessuno ha memoria; e se ce l’ha è distorta da giudizi ormai incastonati e cristallizzati. Mi verrebbe voglia di raccontare di un certo tema di Italiano che fu premiato da un voto altissimo (di fatto, l’unico così alto mai registrato in classe) nel quale l’autore era riuscito ad inserire, tra i grandi autori della critica letteraria, anche il leggendario Pino Palladino.
L- Senza arroganza, è da tempo immemore che ho smesso di fare caso ai vari tentativi di mettere cornici e fascette alle persone; l’amore per l’arte, l’arte che non sia spocchia, aiuta proprio ad allontanarsi da queste smanie raccapriccianti, risultare conclusi, compiuti, rassicuranti.
Scrittori molto più grandi di me sono stati accusati di ripetere all’infinito il proprio io declinato; nella fattispecie mi fu anche detto che non “facevo trame”, nel senso di svilupparle, e che ero “troppo negativo e nichilista”. In questo senso, credo di esserlo molto più di prima, anche per questioni meramente anagrafiche. E di botte prese, che nella vita aiutano sempre; non si può dire altrettanto se te ne stai chiuso nella tua “camera a Posillipo” o fai scelte conservative di convenienza per sbarcare l’ordinarietà: figli, hobbies, gite, abboffate e amarcord con vecchi compagni di cicuta.
Perdere non è tanto male; perdersi nella ricerca ti mantiene il cuore giovane, la bocca sporca, le voglie sane. Ti impedisce di finire in quella melma di nostalgia, inespressione e rimpianto che accompagna le meste vite di noi quasi cinquantenni, ufficialmente convinti che i figli ci salveranno dall’oblio eterno, e che stiamo compiendo il nostro dovere.
Il dovere, per quanto ne so io, è la ricerca, il non fermarsi al passaggio a livello a veder passare i sogni di un tempo. Si vola più lontano, con le broken wings, di questo ne sono certo e so che lo pensi anche tu.
T – Hai menzionato il fatto che ti si considerasse un individualista di destra; ho sentito anche gente darti del «vecchio comunista», del cinico nichilista e del pazzo antisociale. L’esigenza di mettere etichette è più forte di noi, ed è uno dei motivi per cui è sempre difficile, nelle interviste ordinarie, che si parli di temi letterariamente (ed editorialmente) interessanti; si finisce sempre a cercare i dettagli della personalità dell’autore al fine di creare il personaggio-autore, e questi dettagli vengono arbitrariamente estratti dai testi ed etichettati come «autobiografici».
Più che chiederti se ci sono elementi autobiografici nei tuoi racconti preferisco chiederti come si sono evoluti i tuoi protagonisti in questi trent’anni.
L – Ho una viscerale adorazione per l’io narrante, e quasi sempre, anche in Cocincina, non sono io bensì parti assemblate di coscienza e esperienza. Naturalmente ognuno ha la sua cifra, le sue ossessioni e preferenze. Sono attratto, da sempre, da personaggi accomunati dalla marginalità, da un punto di vista esistenziale volto più a smarrirsi che a guadagnare crediti e posizioni. Non a caso posso citare tra le mie influenze letterarie un attore come Patrick Dewaere, talentuosissimo e suicida nel 1982, il quale si era specializzato in ruoli di perdenti, scorticati vivi, come si dice in gergo “farfelu”, “paumés”. La scelta del margine vale anche per le ispirazioni musicali continue nella mia scrittura: tanto per capirci, io non citerò mai in un libro Beatles, Rolling Stones o Pink Floyd, quasi per partito preso. Che senso ha la mia scrittura se devo scrivere di Napoli che risorge, delle grandi band, degli eroi positivi, dei modelli da seguire? Che senso ha e avrebbe per uno che è nato con addosso un sentimento integro e pulsante di insofferenza alle belle e pletoriche norme del bel vivere e bel pensare?
E allora ecco che i miei personaggi centrali inseguono dimenticate utopie, trascurati culti: in questo sì c’è dell’autobiografismo di sponda. Difficile che mi venga voglia di storie corali, con colpi di scena, con personaggi privi di falle e di sporcizia. Nella vita non ho incontrato nessuna persona realmente pura e io lo sono anche meno. Inseguire la purezza, nel quotidiano come nell’arte, è puro delirio, incontinenza di arcaiche, arcane e indecenti paure tramandate.
Quindi continuerò a specializzare i gusti dei personaggi verso gruppi cloni dei Kiss, scriverò di cinquantenni smarriti nel dubbio “meglio i White Lion o i White Tiger?”, imbolsiti e cortesi borghesi che hanno oscenamente dimenticato il rock per darsi al tipico escapismo di chi metterà sempre il piatto in tavola.
Sono missioni, scomode quanto si vuole, sono vocazioni. Se istigano all’equivoco, ben venga. Nessuna purezza sarà mai intaccata, siamo sporchi, corrotti, i nostri sogni bruciati urlano al posto nostro quando fingiamo di essere composti.
T – Hai parlato di Napoli. Una delle poche cose scontate che si possono dire di Napoli senza irritare nessuno è che a Napoli lavorare è complicato. In un mondo di precari, di colf, di badanti, di riders, di reddito di cittadinanza tu riesci a raccontare di una Napoli che sembra tirata fuori da un film di De Sica. Un neo-neorealista, con elementi alla Truffaut. Non a caso faccio riferimento al cinema, di cui siamo entrambi appassionati – irripetibile la proiezione casalinga che facemmo del film francese «La crisi».
Napoli è quotidianamente palcoscenico di una quantità impressionante di messe in scena dai fini più disparati: è una città che, alla giusta distanza, sembra un film in continuo rodaggio, con un milione di protagonisti, una scenografia inconfondibile e senza l’ombra di un regista. E la produzione ha finito i soldi già da tempo. In questo panorama tu scegli di non fare leva su facili stereotipi (di cui, ammettiamolo, moltissimi «artisti» napoletani/campani si approfittano a proprio beneficio) bensì rappresenti una città che potrebbe essere qualunque altra.
Insomma, la domanda conclusiva è questa: hai pensato che forse dovresti scrivere una trilogia basata su zombie transgender che improvvisamente invadono il Golfo di Napoli e il sindaco si improvvisa detective? Già solo con i tag sarebbe trending.
L – Già, gli stereotipi della city dai grandi cuori scenici e sinceri. Credo che proprio per quanto scritto da te (e da me largamente condiviso), uno dei prossimi personaggi sarà un impiegato di un negozio di panettoni tradizionali appassionato della band svizzera dei Krokus e del sesso vestiti in macchina, alle tre di notte nel parcheggio di un ristorante, in una serata di pioggia e di totale oblio del senso della speranza, quella che fa più rumore a Napoli e non solo.
T – Con quest’ultima domanda ammetto la mia ignoranza: non avevo mai sentito la parola cocincina, ho dovuto fare una ricerca che ha avuto esiti piuttosto deludenti. Ho scoperto che è un gioco di carte, un gioco d’azzardo che è stato addirittura bandito dalle sale da gioco e che è considerato un gioco brutale.
Non mi risulta che tu sia mai stato un giocatore d’azzardo, per cui sono particolarmente curioso di capire perché hai scelto questo gioco in particolare.
L – In primis, perché è il gioco principale con il quale si trastullava Daniele Dominici, protagonista dell’indimenticabile La prima notte di quiete di Valerio Zurlini, il mio film preferito, girato proprio nell’anno della mia nascita in una livida Rimini invernale. La violenza del gioco è data dalla dinamica molto veloce e urlata dei giocatori, solitamente due, che si alternano nello scoprire e gettare con irruenza le carte sul tavolo. Ogni giocatore versa una posta iniziale, il vincitore prende l’intero piatto.
Nel febbraio del 2015, dieci persone sono state arrestate in un blitz della polizia sull’Adriatico perché giocavano a cocincina come se fosse l’ultimo atto della loro vita. Come per Daniele Dominici, il mio eroe “nero”.